Mobbing: la Cassazione torna sull’onere della prova
Sentenze Mobbing Cassazione
Attraverso due sentenze della Corte di Cassazione civile, la giurisprudenza italiana fa maggior chiarezza sul tema del mobbing sul luogo di lavoro.
Prima di esaminarne brevemente il contenuto, è necessario fare una premessa, spiegando che cosa si intenda per mobbing e dando conto delle norme promulgate in merito.
Il termine (derivato dal verbo inglese “to mob”, cioè “assalire” o “accalcarsi intorno a”) conosce un utilizzo piuttosto esteso e diversificato: infatti, se in origine indicava il comportamento aggressivo adottato da certe specie animali per allontanare i membri più pericolosi della comunità, oggi viene impiegato sempre più spesso per designare gli atti di bullismo in ambito scolastico e, soprattutto, le attività persecutorie compiute sul posto di lavoro ai danni di un singolo lavoratore.
Queste ultime, negli anni Ottanta del secolo scorso sono state oggetto dello studio dell’accademico svedese Heinz Leymann, il quale usò il termine mobbing per indicare l’interazione attraverso la quale un singolo lavoratore è attaccato da più persone, che possono essere suoi superiori oppure suoi colleghi, e che genera in lui, come conseguenza, uno stress mentale e psicologico, che nei casi più gravi può sfociare in malattia.
A distinguere questo tipo di interazione dalle relazioni conflittuali che, anche in circostanze normali, possono sussistere in qualsiasi ambiente lavorativo, è l’intento persecutorio che muove il responsabile, o più spesso i responsabili, delle azioni vessatorie. Il soggetto sottoposto a mobbing, infatti, è costretto a sopportare piccoli e grandi soprusi, diffamazione, vessazioni e punizioni impartite senza un reale motivo, vere e proprie misure persecutorie, tra cui rientrano anche l’isolamento dalle dinamiche del gruppo e il demansionamento (oltre che, ovviamente la minaccia di violenza fisica e la violenza fisica vera e propria).
Accade allora che, il lavoratore sottoposto a un’esperienza simile, provato a livello fisico e psichico, venga costretto a terminare il rapporto di lavoro o a optare per il pensionamento anticipato, oppure ancora che incarichi un avvocato, e, portato il proprio caso nelle aule di un tribunale, lo sottoponga ad un giudice nella speranza di vedersi riconosciuto almeno il risarcimento del danno.
Il contesto legale di riferimento
In Italia non esiste alcuna normativa a tutela del lavoratore sottoposto a questa forma persecutoria.
Anche se nel 2019 è stato presentato in Senato un disegno di legge che prevederebbe sanzioni penali per i colpevoli di mobbing attualmente, per dirimere le controversie di questo genere si deve ricorrere alle norme già esistenti, e nella fattispecie a:
- l’art. 32 della Costituzione, che tutela l’individuo;
- l’art. 2087 del Codice Civile che impone al datore di lavoro l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e morale di ciascun individuo;
- le norme del Codice Penale che puniscono le lesioni personali.
Per questa ragione, le sentenze a cui abbiamo fatto riferimento in apertura hanno generato interesse presso professionisti del settore e no.
Le sentenze della Corte di Cassazione
La sentenza n.898/2014 ricorda che, in materia di mobbing, per dimostrare la condotta lesiva, e quindi la colpa del datore di lavoro sono rilevanti:
- a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio, ossia tormentare, opprimere insistentemente qualcuno con maltrattamenti morali e materiali.
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Tali elementi vanno provati dal lavoratore in applicazione del principio generale noto come “onore di prova” di cui all’art. 2697 c.c. (dove alla voce “onere della prova”, si legge quanto segue: chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento); quindi si rende necessaria una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla.
Nel caso trattato in sentenza i singoli fatti denunziati non erano ascrivibili ad un unico intento persecutorio: ciascuno in sé considerato non presentava il carattere della ritorsività ed ostilità.
La sentenza n.1149/2014 della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ribadisce la definizione del termine mobbing in ambito lavorativo, ossia quel fenomeno consistente, sostanzialmente, in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere tale soggetto dal gruppo.
Mancando una disciplina normativa a tal proposito, si fa riferimento all’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.
Nel caso in questione, il lavoratore che si riteneva mobbizzato aveva descritto una serie di condotte e comportamenti posti in essere dal proprio datore di lavoro ed in particolare dai numerosi superiori gerarchici avvicendatisi affermando che, nel loro complesso, tali condotte evidenziavano l’evidente volontà posta in essere dalla società di emarginarlo e discriminarlo.
Già in appello, tuttavia, si riconosceva però come il lavoratore si fosse limitato a fornire, a distanza di molti anni, una propria versione dei fatti contrapposta a quella della società, sulla base di una serie di affermazioni prive di qualsiasi sostegno probatorio.
In relazione agli episodi più gravi che lo avevano visto accusato di aver aggredito verbalmente, e talvolta fisicamente, i propri superiori, si era limitato a respingere ogni accusa, negando i fatti, senza tuttavia fornire alcuna valida prova a sostegno della propria versione degli accadimenti.
Viene posta attenzione anche alla presunta dequalificazione professionale: in passato, la Corte d’appello aveva ritenuto che nessun concreto elemento di prova fosse stato fornito dal lavoratore, il quale non aveva nemmeno analiticamente descritto le mansioni che nel corso degli anni gli erano state affidate e quelle che gli spettavano alla luce del suo inquadramento contrattuale.
In conclusione, secondo la Cassazione non era emerso alcun intento discriminatorio della società, che si era limitata ad applicare, a fronte di palesi atti di insubordinazione o di violazione delle regole aziendali, la sanzione disciplinare più lieve e talvolta, in caso di mancanza di chiari elementi di prova (nonostante l’accusa provenisse da superiori gerarchici del ricorrente) non aveva provveduto disciplinarmente nei confronti del presunto lavoratore mobbizzato.