Interpretazione della nozione di rifiuto: art.14 del D.L. n. 138/2002
Il D.L. n. 138 dell’8 luglio 2002, giunge all’esito di un percorso interpretativo difficile, ulteriormente complicato dalla definizione di rifiuto contenuta nell’art.6 del D. Lgs. 5 febbraio 1997 n.22 (Decreto Ronchi sui rifiuti), secondo cui: “è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.
Dopo lunga attesa, vengono infatti interpretate e chiarite le definizioni di “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia l’obbligo di disfarsi”, contenute nella definizione di rifiuto con riferimento al suo detentore, argomento questo spesso al centro di numerosi provvedimenti legislativi e pronunce giurisprudenziali, sia comunitarie che nazionali.
Tali definizioni, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, di seguito denominato “decreto legislativo n.22” vengono spiegate nell’ art.14 comma 1 del D.L. n. 138/2002 come segue:
a)“si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli Allegati B e C del decreto legislativo n.22.
b)“abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli Allegati B e C del decreto legislativo n.22, sostanze, materiali o beni.
c)“abbia l’obbligo di disfarsi”: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’Allegato D del decreto legislativo n.22.
Per quanto riguarda il termine “si disfi” (lettera a)) il provvedimento lega la definizione di rifiuto al compimento effettivo di operazioni di smaltimento o di recupero, come definite dagli Allegati B e C del D.Lgs. n. 22/1997, offrendo così un parametro certo ed oggettivo di riferimento e senza lasciare aperti eventuali dubbi di carattere interpretativo. In questo caso infatti, la qualificazione di un materiale, di una sostanza o di un oggetto come rifiuto, emerge all’effettuazione, in atto o passata, di un’operazione di recupero o smaltimento.
Analogamente non possono sorgere dubbi circa la sussistenza dell’”obbligo di disfarsi” (lettera c)), considerando che in questo caso, la destinazione di un materiale, di una sostanza o di un oggetto allo smaltimento o al recupero, è imposta direttamente dalla legge (si pensi ad esempio agli oli usati e alle batterie esauste) o da un provvedimento della pubblica amministrazione ( ad esempio un’ordinanza con la quale la P.A. impone ad un determinato soggetto l’obbligo di smaltire determinate sostanze o materiali) o deriva dalla natura stessa del materiale considerato, nel momento in cui non risulta più idoneo alla sua funzione originaria o adatto al reimpiego in un ciclo produttivo previo trattamento.
L’”intenzione di disfarsi” (lettera b)) è sicuramente il profilo più complicato da cogliere, in quanto in questo caso sono compresi tutti quei materiali, sostanze e oggetti che sono ancora idonei alla funzione originaria o possono essere utilizzati direttamente in altri cicli di produzione o di consumo, con o senza essere sottoposti qualche genere di trattamento, e diventano rifiuti per una precisa scelta del detentore. In altri termini, è il detentore che decide di avviare allo smaltimento un bene, anziché utilizzarlo per la sua funzione originaria, oppure che decide di avviare a smaltimento o recupero una sostanza che potrebbe invece essere utilizzata direttamente come materia prima senza alcun previo trattamento.
Secondo l’ art. 14 comma 2 del D.L. 138/2002:
Non ricorre la decisione di disfarsi, di cui alla lettera b) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:
a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente.
b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’Allegato C del decreto legislativi n. 22.
Il senso è dunque che i materiali riutilizzabili, con o senza trattamento, derivanti da cicli produttivi o di consumo, non sono più rifiuti.
Nel primo caso si conferma che il riutilizzo di un bene “tal quale” nel ciclo produttivo è un’attività esclusa dall’ambito della disciplina dei rifiuti, anche nel caso di usura e deterioramento del bene stesso, che non possono quindi ritenersi condizioni determinanti ai fini della sua qualificazione come rifiuto. Il riutilizzo di un bene “tal quale” inoltre, non ne determina la natura di rifiuto se avviene “senza recare pregiudizio all’ambiente”, condizione questa generica i cui limiti saranno, presumibilmente oggetto di contrasti interpretativi.
Nel caso in cui il bene sia invece oggetto di un’attività di trattamento finalizzata al riutilizzo nel medesimo, in analogo o in un diverso ciclo produttivo o di consumo (termine quest’ultimo che comprende anche la successiva commercializzazione), la mancata applicazione della disciplina sui rifiuti dipende invece, dal fatto che le operazioni di “trattamento” previste e finalizzate al riutilizzo, non rientrano tra quelle considerate come attività di “recupero” (come lo sono invece quelle citate negli Allegati B e C del D.Lgs. n. 22 del 1997 e in modo specifico nel D.M. 5 febbraio 1998 sul recupero dei rifiuti non pericolosi).
E’ dunque fondamentale capire cosa si intenda per trattamento. Una sua definizione è reperibile solo nella “direttiva discariche” (99/31/Ce), secondo la quale sono così intesi i processi fisici, termici, chimici o biologici (compresa la cernita) che modificano le caratteristiche dei rifiuti per ridurne il volume o la pericolosità, facilitarne il trasporto, agevolare il recupero o favorirne lo smaltimento sicuro. In pratica a partire dall’ 8 luglio 2002 la cernita della carta che residua dalle industrie o dai cassonetti urbani per il loro inoltro alle cartiere è un’operazione che avviene su materie prime e non su rifiuti. Questo consente di agire senza le autorizzazioni, i documenti e le relative sanzioni che la gestione dei rifiuti richiede e stabilisce.
L’esclusione della qualifica di rifiuto non potrà però, basarsi sulle mere dichiarazioni soggettive dell’interessato.
In particolare dovranno essere valutati tutti i comportamenti del detentore incompatibili con la destinazione di un bene alla sua funzione originaria o all’impiego diretto senza alcuna attività di recupero dei rifiuti.
Pertanto il detentore stesso dovrà offrire la prova rigorosa della destinazione attuale, effettiva ed oggettiva, al reimpiego produttivo senza che sia necessaria alcuna operazione che la normativa tecnica qualifica come intervento di recupero.