Rifiuti infetti e coronavirus Covid-19
Nello stato di emergenza in atto, l’applicazione delle procedure di disinfezione di luoghi di lavoro, ospedali, impianti sportivi ed aree simili, insieme al corretto uso dei DPI (consolidato per mezzo di corsi di formazione appositi, se necessario) risulta essenziale per impedire la trasmissione dell’infezione da coronavirus: infatti, questo tipo di virus, nelle giuste condizioni, possiede una capacità di sopravvivenza ambientale pari a 9 giorni.
Sebbene i vantaggi siano evidenti, e la necessità comprovata, l’adozione di queste misure pone il problema dell’eliminazione dei rifiuti che produce, i quali, essendo venuti a contatto con i residui biologici da persone infette, rappresentano un rischio per l’uomo, e, in seconda battuta, anche per l’acqua ed il territorio nel suo complesso.
I rifiuti a rischio infettivo
Stando alla definizione prevista dalle norme, i rifiuti a rischio infettivo sono quei rifiuti che presentano un rischio biologico, nonché gli oggetti e i materiali da eliminare venuti a contatto con sangue o materiale biologico infetto o presunto tale, in quanto prodotti da persone affette da patologie identificate, in seguito alla verifica del medico che li ha in cura, come trasmissibili.
Questi rifiuti sanitari sono individuati dalle voci 180103* del Catalogo Europeo dei Rifiuti, che comprendono tutte le tipologie di rifiuti sanitari pericolosi per via del rischio infettivo, prodotti sia dal settore sanitario sia da quello veterinario.
In base alle disposizioni emesse dall’autorità nazionale e da quelle regionali in materia di smaltimento di rifiuti, la raccolta dei rifiuti pericolosi a rischio infettivo avviene all’interno di ciascuna Unità Operativa, dove devono essere predisposti gli appositi contenitori, i quali vanno collocati in posizione idonea, facilmente accessibili, nelle immediate vicinanze del luogo di effettiva produzione dei rifiuti.
Tutti i contenitori, di qualunque forma o tipo atti a contenere i rifiuti a rischio infettivo solidi e liquidi, indipendentemente dal contenuto specifico, devono essere facilmente identificabili mediante un codice colorato e la scritta “rifiuti pericolosi a rischio infettivo” e il simbolo del rischio biologico.
Secondo la procedura prevista per queste categorie di rifiuti speciali, il contenitore deve essere costituito da un imballaggio a perdere, anche flessibile, costituito da un sacco interno di polietilene inserito in un contenitore esterno rigido e impermeabile. Il sacco deve essere dotato di fascetta per la chiusura irreversibile di sicurezza, mentre la capacità del contenitore può variare da 20 a 60 litri. Sul contenitore rigido esterno – che bisogna avere cura di disinfettare ad ogni ciclo d’uso – deve essere presente la scritta “rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo” e il simbolo del rischio biologico; al fine dell’identificazione del punto di produzione del rifiuto è necessario scrivere sul contenitore, in zona ben visibile ed in modo leggibile, il nome dell’U.O., Servizio o Area che ha prodotto il rifiuto nonché la data di chiusura del contenitore.
I prodotti utilizzati dalle imprese di pulizia per lo smaltimento di rifiuti infetti o potenzialmente infetti all’interno di un’attività lavorativa, in cui è stata accertata la presenza di una persona infetta da CORONAVIRUS, o nelle strutture sanitarie nelle quali vengono trattati i pazienti covid, rientrano in tale tipologia di rifiuti, e quindi non possono essere smaltiti in base alle norme vigenti in materia di gestione dei rifiuti urbani.
La circolare “COVID-2019. Indicazioni e chiarimenti” del 24 febbraio 2020 emanata dal Ministero della Salute, nell’indicare le linee-guida secondo cui condurre la sanificazione degli ambienti esposti al virus, specifica soltanto che questi rifiuti vengano smaltiti secondo la dicitura seguente:
“Eliminazione dei rifiuti – I rifiuti devono essere trattati ed eliminati come materiale infetto categoria B (UN3291)” e categoria ADR UN3291.
Specificando che il produttore e responsabile del rifiuto con relativi obblighi è l’azienda incaricata della sanificazione sarà opportuno che gli addetti incaricati evitino assolutamente di:
- buttare i DPI utilizzati, gli stracci, i test realizzati ecc, nei contenitori della raccolta indifferenziata a fine sanificazione e
- mettere DPI utilizzati e stracci, ecc. in sacchi e trasportarli con i propri mezzi verso il loro magazzino a fine sanificazione (e vale sia per le aziende NON iscritte all’Albo, che per quelle iscritte all’Albo in categoria 2bis per CER 180103).
Leggermente diversa la procedura adottata nei contesti domestici e lavorativi. A questo proposito, l’Istituto Superiore di Sanità fa sapere che:
- nelle abitazioni in cui sia presente un positivo, accertato o sospetto, i materiali potenzialmente contaminati (come fazzoletti e carta ad uso domestico) e i DPI monouso vanno smaltiti nell’indifferenziata;
- nei luoghi di lavoro, i DPI monouso devono essere raccolti in appositi contenitori, collocati in punti di conferimento vicini alle uscite, e areati.
Le imprese si dovranno poi occupare della consegna di questi rifiuti a uno smaltitore autorizzato per l’incenerimento, aggiornare il registro di carico e scarico dei rifiuti, e predisporre la denuncia annuale MUD.
In conclusione, si ricorda la fondamentale importanza da parte del datore di lavoro dell’azienda oggetto di sanificazione da coronavirus di integrare la documentazione volta alla gestione dei rischi interferenti (DUVRI art. 26.D.Lgs 81/08) con particolare riferimento al rischio biologico accertandosi che l’impresa addetta alla sanificazione sia a conoscenza dell’avvenuta precedente contaminazione.